Per Umbria Jazz il ritorno di Brad Mehldau è sempre un avvenimento perché il pubblico del Festival fin dall’esordio del suo trio nel 1997, con un leggendario ciclo di concerti in una piccola sala, ha dimostrato di avere un debole per questo pianista dalla straordinaria vena poetica. In realtà, Mehldau aveva già suonato al Festival qualche anno prima con il quartetto di Joshua Redman, protagonista di una memorabile notte a San Francesco al Prato (1994) e della prima edizione di Umbria Jazz Winter nel 1993. Uno dei non moltissimi musicisti, Mehldau, che riportano all’essenza e al senso stesso della musica, cioè produrre emozioni. Nessuna maestria strumentale, nessun virtuosismo possono sostituire quella capacità di muovere i sentimenti che è propria della grande musica. Molto più che suonare note.
Il classico trio resta la formula identitaria di Brad Mehldau, quella che, anche secondo i suoi fan, ne descrive in modo ideale la mission artistica. Non che nel tempo Brad non abbia manifestato, e coltivato, interessi diversi. Ha esplorato forme di ispirazione accademica collaborando con orchestre sinfoniche e cantanti liriche e, sul versante opposto, suoni più moderni con l’adozione di tastiere e altri strumenti elettronici. Ha suonato con monumenti del jazz come Charlie Haden, Pat Metheny, John Scofield, Lee Konitz, Charles Lloyd, Wayne Shorter, ma anche con artisti di diversa estrazione artistica come Willie Nelson e Chris Thile. E ogni volta, ha saputo calarsi perfettamente in universi sonori apparentemente lontani ma in realtà ben compresi in un universo musicale totalizzante. Centrale resta la produzione per piano solo, musica emozionante quanto complessa, in cui l’improvvisazione del jazzman si coniuga con monumentali architetture di matrice classica. Una produzione documentata da una lunga serie di dischi, l’ultimo dei quali è una rilettura delle canzoni dei Beatles. Prima c’era stato “Suite: April 2020”, inciso durante la pandemia come una riflessione sonora sui vari momenti di una giornata di lockdown in casa, e ancora prima, tre anni fa, “After Bach”, in cui Mehldau mette al centro della sua poetica, nello stesso tempo con audacia e rispetto, nientemeno che “Il Clavicembalo Ben Temperato”.
Ma il trio occupa un posto a parte nel suo percorso artistico. Una piccola grande band con una fortissima identità artistica. Tutto passa, nella concezione moderna del trio pianistico, attraverso un miracoloso equilibrio tra le parti che si basa su un interplay democraticamente alla pari. Il trio di Brad Mehldau ne è un perfetto esempio, e la reciproca “comprensione” tra il pianista, il contrabbassista Larry Grenadier e il batterista Jeff Ballard è assoluta. Fuori dalla mistica spesso rituale della jam session, il grande jazz si è sempre poggiato su band stabili che costruiscono sera dopo sera, disco dopo disco, la loro architettura creativa.